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LE PICCOLE MORALI DI UN COMPOSITORE SILENTE

  • Marco Marini
  • 8 ott 2015
  • Tempo di lettura: 3 min

cap 3

Quante meteore aveva visto Marco, in televisione, nei talent show, o semplicemente sui social network: gente che è salita sulla vetta nel giro di due settimane per poi crollare altrettanto velocemente, dopo aver creato un tormentone che è durava in media dai tre mesi ai quattro anni. Tutti vorrebbero essere al posto di quelle "celebrità", essere sotto i riflettori, firmare decine di autografi, essere amati dai propri fan, anche solo per quindici minuti, come disse Warhol. Oggi si fraintende molto spesso il ruolo del musicista: le persone lo vedono come un tizio che passa tutti i giorni a suonare sui palchi, o davanti ad una videocamera a girare un videoclip in stile MTV. Non è affatto così, non può, anche Marco ne era assolutamente sicuro. La figura di un artista non dovrebbe essere dettata solo dalla sua immagine, ma anche da ciò che crea; era convinto di questo. Non era un compositore che teneva bene il palco, odiava essere ripreso dalla telecamera e soprattutto,

odiava sentire la propria voce registrata in un brano. Se un vero musicista si vedesse da queste cose, avrebbe finito il suo viaggio ancora prima di cominciarlo. Per lui c'erano diversi tipi di musicisti: gli strumentisti, I beat maker, I compositori, I DJ di un certo calibro, e ognuno di loro aveva un suo modo di fare musica, che non avrebbe dovuto essere mai sminuito, ma nemmeno essere valorizzato di più rispetto agli altri. Marco notava spesso che ogni cinque anni circa c’era sempre un genere “prediletto” che rubava la scena a tutti gli altri, e tassativamente, per moda, tanti neo musicisti, senza pensarci due volte, iniziavano a produrre solo quel tipo di musica, spesso in modo superficiale, poiché era convinto che il suo pubblico avrebbe notato di più la personalità del creatore che le sue creazioni. Ed era questo che il compositore silente non sopportava: odiava i musicisti che facevano più fede alla propria faccia che alla traccia che producevano e , soprattutto, detestava quelli che curavano solo ed esclusivamente la propria immagine: quelli che pensavano solamente al loro modo di vestire, che stavano attenti a come camminavano, o ancora quelli che ritenevano più importante farsi un selfie in spiaggia o ai festini da pubblicare su Instagram piuttosto della qualità dei loro brani. Non ci voleva credere, ma questa era la mentalità di molti musicisti che lo circondavano e di molti che avevano raggiunto il successo. Spesso non era merito della loro bravura se erano arrivati a quel livello, ma della maschera con cui si mostravano al pubblico, e solo grazie a questa avevano l'onore di recitare su quel grande palco che era il mondo della musica. Il nuovo artista intimorisce il pubblico d’oggi se non può essere identificato o etichettato, e piuttosto che essere lasciato avvolto da quel magico velo di mistero, gli si deve dare sempre una maschera, un insieme di elementi che fungono da tramite tra lui e i suoi spettatori, con le quali deve convivere e recitare la sua parte, che gli piaccia o no. Marco ne aveva viste di “maschere" strane: acconciature assurde, Concerti live che sembravano i carnevali di Rio de Janeiro e nomi d’arte che erano presi direttamente dai nickname dei giocatori di videogiochi come “World of Warcraft” (Mattafix, Darckangel, ecc…). Tutte queste “stelle” prima di fare il loro debutto sul palco dovevano avere una propria maschera, ma non era mai sicuro se veniva indossata volentieri o se era un qualcosa che il loro produttore avesse prestabilito. Ogni artista ne aveva una diversa in base al genere che rappresentavano. Si creavano così numerosi stereotipi sbagliati e purtroppo diffusi: dal rapper troppo sicuro di se, al metallaro pazzo, dal chitarrista drogato al cantante tamarro. Quello che Marco non sopportava tra tutti questi personaggi che entravano in scena era quello del compositore: erano i musicisti che dovevano a tutti i costi atteggiarsi come un nuovo Mozart o un Bach moderno, che consideravano tutto ciò che creavano una sinfonia, dovevano ogni singola volta decantare il loro amore per la musica con frasi tipo “ohh, io adoro la musica” oppure “la musica è la mia vita” e dovevano ostentarlo ogni volta che suonavano due note. Non gli dava fastidio questo atteggiamento perché sentiva il morso della competizione, ma perché quella era la maschera che tutti avrebbero associato ad un compositore: quella di un autistico sociopatico che viveva in una torre d'avorio e pensava solo ed esclusivamente ad amare la “musica" e a dimostrarlo con parole vuote a chiunque lo stesse ad ascoltare. Si sentiva offeso, scocciato da quella maschera; lui non era così, e non avrebbe mai recitato la sua parte indossandola. Era una persona normale che gli piaceva creare i suoi brani in tranquillità, tutto quì. Se un compositore avesse dovuto essere rappresentato da una maschera, Per Marco questa sarebbe divisa a metà: una avrebbe i fori indispensabili per poter muoversi sul palco ,e l’altra avrebbe rappresentato l’esatta l’immagine di ciò che ha creato. Questa dovrebbe essere anche la maschera di qualsiasi artista, ma si tende a decorarla con dettagli insignificanti. Marco diffidava spesso delle maschere troppo decorate, vedeva quei ghirigori solo come delle distrazioni che lo allontanavano dalla cosa più importante: il talento dietro quelle decorazioni. Del resto, La bravura di un attore non si vede da quanto è sfarzosa la sua maschera, ma da come recita la sua parte.

 
 
 

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